La Storia
Dedicato «al Bibi» che quando eravamo bambini, caricava me e i miei fratelli sul suo trattore, assieme alla legna di pioppo tagliata lunga e alla farina di segale dei suoi campi, portandoci a San Rocco, una frazione di Teglio, «a fare il pane».
Fino ai primi anni ‘80, infatti, in ogni contrada erano ancora in uso i forni «comunitari», cioè dove la donna della famiglia con i propri ingredienti e con l’aiuto della fornaia stessa, procedeva alla produzione del pane per l’autoconsumo di almeno 15 giorni. Si facevano esclusivamente ciambelle di segale data la notevole presenza di questo cereale, la cui coltivazione era alternata a quella del grano saraceno, meno adatto alla panificazione ma preferito per prodotti come pizzoccheri e polenta.
«Il Bibi» iniziò ad andare al forno da ragazzo quando sua madre si ruppe il braccio e la dovette quindi sostituire; la fornaia quando vide le sue forti braccia all’opera, lo volle sempre per impastare!
Quando si finiva di fare il pane si era soliti preparare le ciambelle dolci, poche però perché bisognava utilizzare burro, zucchero e latte, ingredienti non sempre nelle disponibilità di tutte le famiglie.
Uniche per gusto e profumo, in un periodo in cui le merendine della grande distribuzione non erano ancora diffuse come al giorno d’oggi, per noi bambini erano una delizia e non arrivavano mai a sera!
Negli anni successivi la coltivazione della segale fu abbandonata e i forni andarono in disuso, l’utilizzo del lievito naturale sorpassato e così l’usanza della «Brazàdela de Tèi», limitata solo ad alcune sporadiche produzioni casalinghe o riprodotta in versioni «surrogate».
Oggi, trent’anni dopo, grazie ai racconti e al confronto con le ultime fornaie rimaste a Teglio, alla formazione ricevuta dai più grandi maestri del lievito naturale e il mettersi in gioco di un agricoltore tellino che ha reintrodotto la coltivazione della segale nei terreni del «Bibi», siamo orgogliosi di riproporre un prodotto tipico eccezionale per bontà e storia.
Con l’utilizzo degli ingredienti caratterizzanti, come allora a «chilometro zero», l’utilizzo del lievito naturale e di un packaging innovativo, siamo in grado di garantire qualità e una migliore conservazione.
Innovare con rispetto verso il territorio e creare un prodotto a «filiera corta» per ricordare uomini e dolci, genuini e ruspanti, è l’intento della rievocazione di questo dolce. Lo stesso «Bibi» diventato anziano, regalava ciambelle a tutti quelli che gli prestassero cure, consapevole di fare un dono di valore. Ciao papà
Andreoli Graziano
Fino ai primi anni ‘80, infatti, in ogni contrada erano ancora in uso i forni «comunitari», cioè dove la donna della famiglia con i propri ingredienti e con l’aiuto della fornaia stessa, procedeva alla produzione del pane per l’autoconsumo di almeno 15 giorni. Si facevano esclusivamente ciambelle di segale data la notevole presenza di questo cereale, la cui coltivazione era alternata a quella del grano saraceno, meno adatto alla panificazione ma preferito per prodotti come pizzoccheri e polenta.
«Il Bibi» iniziò ad andare al forno da ragazzo quando sua madre si ruppe il braccio e la dovette quindi sostituire; la fornaia quando vide le sue forti braccia all’opera, lo volle sempre per impastare!
Quando si finiva di fare il pane si era soliti preparare le ciambelle dolci, poche però perché bisognava utilizzare burro, zucchero e latte, ingredienti non sempre nelle disponibilità di tutte le famiglie.
Uniche per gusto e profumo, in un periodo in cui le merendine della grande distribuzione non erano ancora diffuse come al giorno d’oggi, per noi bambini erano una delizia e non arrivavano mai a sera!
Negli anni successivi la coltivazione della segale fu abbandonata e i forni andarono in disuso, l’utilizzo del lievito naturale sorpassato e così l’usanza della «Brazàdela de Tèi», limitata solo ad alcune sporadiche produzioni casalinghe o riprodotta in versioni «surrogate».
Oggi, trent’anni dopo, grazie ai racconti e al confronto con le ultime fornaie rimaste a Teglio, alla formazione ricevuta dai più grandi maestri del lievito naturale e il mettersi in gioco di un agricoltore tellino che ha reintrodotto la coltivazione della segale nei terreni del «Bibi», siamo orgogliosi di riproporre un prodotto tipico eccezionale per bontà e storia.
Con l’utilizzo degli ingredienti caratterizzanti, come allora a «chilometro zero», l’utilizzo del lievito naturale e di un packaging innovativo, siamo in grado di garantire qualità e una migliore conservazione.
Innovare con rispetto verso il territorio e creare un prodotto a «filiera corta» per ricordare uomini e dolci, genuini e ruspanti, è l’intento della rievocazione di questo dolce. Lo stesso «Bibi» diventato anziano, regalava ciambelle a tutti quelli che gli prestassero cure, consapevole di fare un dono di valore. Ciao papà
Andreoli Graziano
El Pan de Tej
Il vocabolo brazadèl e il suo femminile nella comune concezione odierna è il tipico pane di Teglio confezionato con farina di segale e a forma di ciambella piuttosto ribassata. Secondo il dizionario tellino di Elisabetta Branchi e Luigi Berti edito dall' Idevv per conto della Biblioteca Comunale di Teglio, il maschile brazadèl designa la ciambellina di farina di segale fatta con gli ultimi resti della pasta di pane rimasti nella madia mentre il femminile brazadèla una ciambella di farina di frumento, zucchero, burro e uova. Il diminutivo brazadilìn, perde ogni rapporto con le farine, e riporta ad una qualità di fagiolo, il cornetto.
Il pane di Teglio, benché caratterizzato dalla forma e dal rigoroso uso della farina di segale che lo fanno distinguere, non ha a Teglio altro nome che pan, eventualmente con la specifica de segèl e de sitìl quando è croccante. Fra i derivati c'è pané, la madia in cui si impastano lievito, farina e i panùn che è un dolce fatto con pasta di pane di segale farcita con noci, fichi secchi, uva passa e anche se si vuole, di castagne.
Il pane veniva confezionato in forni a legna, di proprietà privata, che si potevano utilizzare a pagamento che comprendeva anche l'opera di una fornaia. Il pagamento di entrambi era in natura e in rapporto alla quantità del pane prodotto. Ogni infornata comportava l'impiego di un pés (8 chili) di farina. Senza storia è poi il pan de sùrgo, pane di farina di mais. Importante nella conduzione del forno era assicurare la continuità del lievito lasciando una pagnotta cruda nella madia. Un altro uso era quello di lasciare infilato in un piolo alla parete, un pane per il cliente successivo del forno, forse a prova della propria bravura. Qualcuno che volle legare questa usanza ad un proverbio ne modificò la versione ufficiale: quant che 'l finìs el fé de Borum, el furmentùn de Téj e 'l vin de Punt lìè scia la fin del munt sostituendo “furmentùn” con “pan”.
Con qualche variante (a Bormio bresciadél, a Grosio brasciadél, a Poschiavo brasciadéla, come a Tirano, dove però è in uso anche brazadéla) questo è il nome del pane di segale o di frumento o anche de mistùra (delle due farine), forma di ciambella. I linguisti, abbandonata l'ipotesi che il nome derivasse dall'improbabile possibilità di infilare la ciambella nel braccio, riconducono il vocabolo a un tardo latino brachiatella, con significato di provvista di piccole braccia perché la ciambella si otteneva dando forma di cerchio e una sorta di grosso grissino le cui estremità sovrapposte possono sembrare due braccia che si congiungono o due mani che si stringono.
Di questo pane apprezzato dai primi del '900 di pari passo col diffondersi del turismo, non si è scritto gran che persino nella letteratura gastronomica valtellinese, ma una citazione gli è stata riservata nel migliore dei libri sull'argomento, Andar per crotti di Epicuro, pseudonimo del medico e umanista milanese – valchiavennasco barone Emilio Giani De Valpo, che così scrive “i brazadei [sono] delle ciambelle a forma piuttosto bassa: confezionate con farina si segale, ricca di gemme vitali e di tesori vitaminici: si mangiano freschi ma sono saporosi anche raffermi e secchi.” E qui trova posto l'incredibile storiella “che il nome brazadei [sia] dovuto al fatto che anticamente le ciambelle venivano servite in tavola infilata al braccio destro, mentre con la sinistra si serviva nei boccali il buon vino valtellinese”, immagine di osteria rinascimentale adatta al leggendario della Teglio dei Besta e della loro piccola corte alpina (dove peraltro si sarà preferito il pane bianco di frumento), ma immaginabile nelle normali case telline. Il quadretto è stato ripreso pari pari da Guido Margiotta in quella sua summa gastronomica valtellinese del 1978 intitolata “Valtellina e Valchiavenna riscoperta di una cucina”. Tarcisio Salice, che al libro contribuisce con un interessante scritto intitolato “Il menù dell'arciprete” dà qualche notizia sul pane di segale. Si tratta del pranzo offerto il 19 giugno 1571, festa patronale di Sondrio, per la sua nomina ad arciprete da don Giangiacomo Pusterla. Il conto della spesa, fra polli, capponi, colombi, un intero vitello e un altro quarto, due lepri, una trota di 8 libbre (pari circa a 6 chili), formaggi, zucchero, burro, oltre a vino, carni salate e altro che erano già in casa, comprende anche pane di frumento comprato e farine di frumento e segale per farne pane “frumentato” per la servitù di famiglia. La quantità di 36 e 18 (stranamente in litri) ci indica che la farina di segale era doppia rispetto a quella di frumento. Nella ideale ricostruzione del menù che ne fa Tato Sozzani, storico e insuperato chef del secondo '900 valtellinese, c'è anche una ipotesi di utilizzo del pane di segale (evidentemente sottratto alla servitù) per una vivanda definita “broda con fette di pane di segale profumo di sedano, fatta con galline e avanzi di capponi. Oggi il pane di segale alla tellina è una specialità di produzione quotidiana in quasi tutti i panifici e la gente è in grado di distinguere ed apprezzare le diversità fra i prouttori e persino le sfumature che la mano sperimentata dell'artigiano sa dare al suo prodotto.
Bruno Ciapponi Landi
Il pane di Teglio, benché caratterizzato dalla forma e dal rigoroso uso della farina di segale che lo fanno distinguere, non ha a Teglio altro nome che pan, eventualmente con la specifica de segèl e de sitìl quando è croccante. Fra i derivati c'è pané, la madia in cui si impastano lievito, farina e i panùn che è un dolce fatto con pasta di pane di segale farcita con noci, fichi secchi, uva passa e anche se si vuole, di castagne.
Il pane veniva confezionato in forni a legna, di proprietà privata, che si potevano utilizzare a pagamento che comprendeva anche l'opera di una fornaia. Il pagamento di entrambi era in natura e in rapporto alla quantità del pane prodotto. Ogni infornata comportava l'impiego di un pés (8 chili) di farina. Senza storia è poi il pan de sùrgo, pane di farina di mais. Importante nella conduzione del forno era assicurare la continuità del lievito lasciando una pagnotta cruda nella madia. Un altro uso era quello di lasciare infilato in un piolo alla parete, un pane per il cliente successivo del forno, forse a prova della propria bravura. Qualcuno che volle legare questa usanza ad un proverbio ne modificò la versione ufficiale: quant che 'l finìs el fé de Borum, el furmentùn de Téj e 'l vin de Punt lìè scia la fin del munt sostituendo “furmentùn” con “pan”.
Con qualche variante (a Bormio bresciadél, a Grosio brasciadél, a Poschiavo brasciadéla, come a Tirano, dove però è in uso anche brazadéla) questo è il nome del pane di segale o di frumento o anche de mistùra (delle due farine), forma di ciambella. I linguisti, abbandonata l'ipotesi che il nome derivasse dall'improbabile possibilità di infilare la ciambella nel braccio, riconducono il vocabolo a un tardo latino brachiatella, con significato di provvista di piccole braccia perché la ciambella si otteneva dando forma di cerchio e una sorta di grosso grissino le cui estremità sovrapposte possono sembrare due braccia che si congiungono o due mani che si stringono.
Di questo pane apprezzato dai primi del '900 di pari passo col diffondersi del turismo, non si è scritto gran che persino nella letteratura gastronomica valtellinese, ma una citazione gli è stata riservata nel migliore dei libri sull'argomento, Andar per crotti di Epicuro, pseudonimo del medico e umanista milanese – valchiavennasco barone Emilio Giani De Valpo, che così scrive “i brazadei [sono] delle ciambelle a forma piuttosto bassa: confezionate con farina si segale, ricca di gemme vitali e di tesori vitaminici: si mangiano freschi ma sono saporosi anche raffermi e secchi.” E qui trova posto l'incredibile storiella “che il nome brazadei [sia] dovuto al fatto che anticamente le ciambelle venivano servite in tavola infilata al braccio destro, mentre con la sinistra si serviva nei boccali il buon vino valtellinese”, immagine di osteria rinascimentale adatta al leggendario della Teglio dei Besta e della loro piccola corte alpina (dove peraltro si sarà preferito il pane bianco di frumento), ma immaginabile nelle normali case telline. Il quadretto è stato ripreso pari pari da Guido Margiotta in quella sua summa gastronomica valtellinese del 1978 intitolata “Valtellina e Valchiavenna riscoperta di una cucina”. Tarcisio Salice, che al libro contribuisce con un interessante scritto intitolato “Il menù dell'arciprete” dà qualche notizia sul pane di segale. Si tratta del pranzo offerto il 19 giugno 1571, festa patronale di Sondrio, per la sua nomina ad arciprete da don Giangiacomo Pusterla. Il conto della spesa, fra polli, capponi, colombi, un intero vitello e un altro quarto, due lepri, una trota di 8 libbre (pari circa a 6 chili), formaggi, zucchero, burro, oltre a vino, carni salate e altro che erano già in casa, comprende anche pane di frumento comprato e farine di frumento e segale per farne pane “frumentato” per la servitù di famiglia. La quantità di 36 e 18 (stranamente in litri) ci indica che la farina di segale era doppia rispetto a quella di frumento. Nella ideale ricostruzione del menù che ne fa Tato Sozzani, storico e insuperato chef del secondo '900 valtellinese, c'è anche una ipotesi di utilizzo del pane di segale (evidentemente sottratto alla servitù) per una vivanda definita “broda con fette di pane di segale profumo di sedano, fatta con galline e avanzi di capponi. Oggi il pane di segale alla tellina è una specialità di produzione quotidiana in quasi tutti i panifici e la gente è in grado di distinguere ed apprezzare le diversità fra i prouttori e persino le sfumature che la mano sperimentata dell'artigiano sa dare al suo prodotto.
Bruno Ciapponi Landi